Quella sera uscii sul tardi perché sentivo che qualcosa mi stava chiamando. Camminai una mezz’ora, erano le undici di sera, ma c’era piena luce a quelle latitudini estreme. Guadagnai un dolce pendio boscoso e mi affacciai al di là di esso e, pur se non distinsi chiaramente le sagome che vidi, i miei occhi o, forse la mia mente, si posero su un branco di lupi che sinuosamente solcava il sottobosco dell’area. Svanirono subito dalla mia percezione, ma, ciò che mi fece trasalire oltre le soglie del divino, fu che qualche minuto dopo, verso est, già a notevole distanza, udii chiaramente – o fu la proiezione ancora della mia mente – il loro ululare, come una musica indomita che permeava la sala acusticamente perfette di un auditorium. Il mio auditorium era però alquanto più grande e si espandeva in ogni pertugio di quella fantastica natura selvaggia che mi circondava in ogni dove. Lì ascoltai per tutto il tempo che ulularono, forse qualche minuto, ma per me quel tempo che appariva così breve, mi sembrò infinito perché infinito ed indecifrabile era il vero significato di quell’ululare. Nei reconditi recessi del mio io, in quel particolare viaggio di ascolto che avevo voluto intraprendere, l’ululato e le gesta del lupo rappresentò, un elemento importante per la mia ricerca della comprensione.
Un primo ascolto arrivò dunque nel mio spirito quella notte, un ascolto che mi avrebbe spianato la strada verso altri successivi spesso indecifrabili “segni” e soprattutto verso la volontà di capire qualcosa che, pur se dentro me, come detto, era probabilmente presente, non appariva ancora allo scoperto in tutte le sue vestigia di chiarezza e di verità. Era infatti sicuramente giusta la riflessione di Farley Mowat quando scrisse: “Da qualche parte a est un lupo ululò in tono leggermente interrogativo. Riconobbi la voce perché l’avevo udita molte volte in precedenza….. Ma per me era una voce che parlava del mondo perduto un tempo nostro, prima che scegliessimo un ruolo in contrasto con esso; un mondo di cui avevo avuto un barlume e in cui era quasi entrato ….. soltanto per restarne escluso, alla fine, dal mio stesso io”
L’indomani, il sole espandendosi in un cielo terso si irradiava in ogni dove, e quella divina luce sembrava comporre lo sfondo di un palcoscenico fosforescente dove ancora gli attori dovevano presentarsi alla recita. Io, in ultima fila, attendevo con impazienza poiché desideravo assistere ad una rappresentazione che, stando alla trama che lessi, mi appariva estremamente interessante ed istruttiva. Presi a camminare lungo il bordo est del fiume per una decina di chilometri e, nel mio procedere, osservavo con attenzione le variegate immagini che a spaglio il luogo offriva in forma radiante. Curvai versi destra, questa era la volontà del corso di quelle acque, e, d’improvviso, vidi che in quel tratto il fiume s’apriva in un’ampia ansa placida e ben delineata. Osservai i bordi con il binocolo e trovai subito l’autore di quell’opera: il castoro. Infatti, oltre alle sua tana posta sulla sponda opposta (un intrico di rami e terra ben saldati fra loro a forma di piramide), dove il fiume restringeva, quell’ingegnere forestale aveva nel tempo ammassato e sagacemente intrecciato tra loro rami, bastoni, fronde e finanche un tronco di ragguardevole misura. Rimasi ad osservare ammirato e controllai con curiosità e particolarità tutto lo sviluppo di quella struttura. Una vera e propria opera di idraulica fluviale, con tutti gli elementi che, nel loro armonizzarsi fra loro, creavano quell’angolo davvero particolare e funzionale. Il tutto ovviamente non era il frutto di improvvisazioni e casualità, ma di un attendo studio della situazione ambientale che il castoro aveva elaborato per creare l’optimum per le sue esigenze vitali. Tralascio le descrizioni e le motivazioni tecniche di quel lavoro, ma la cosa più bella fu che anche quell’immagine, sicuramente realmente esistente, rappresentava un altro ascolto per il mio spirito.
Stavo comprendendo che i doni che potevo ricevere dal mondo selvaggio, favorito da un particolare punto di ascolto, non erano rappresentati da un’unica voce chiarificatrice, ma dall’insieme di tanti elementi che nel plasmarsi ed espandersi nel mio interno si coniugavano poi, probabilmente, in un profondo e tangibile significato. Intanto nel mio andare mi aspettava ora un nuovo personaggio della commedia. Appena superai di poco quella placida ansa, ad un centinaio di metri vidi un alce maschio immerso con le zampe nell’acqua e con il capo rivolto verso monte mentre masticava qualche leccornia che aveva carpito dal fondo melmoso delle acque. Fui molto circospetto, mi fermai, mi nascosi dietro un grosso abete e con pazienza spontanea mi misi ad ammirare la scena con tutto il corollario che si sviluppava d’intorno. Respiravo pian piano perché non avrei voluto rovinare il tutto per un mio modo di fare brusco e disarmonico. In fondo io in quel luogo mi sentivo, per lo meno in quella fase iniziale, come un ospite ed un amico e, un ospite che merita un tale appellativo, mantiene un atteggiamento estremamente rispettoso.
Pacatamente riguadagnai la via di ritorno e, rientrato nella capanna, mi accinsi a trascrivere sul quaderno gli ultimi eventi, nella forma più dettagliata possibile. Mentre scrivevo mi resi ancor più conto che la mia non era affatto una ricerca scientifica, ma semplicemente una ricerca che sgorgava dal più profondo dell’essere per non far scadere ogni nuova esperienza o emozione come un casellario monotematico in cui le conoscenze dirette venivano tradotte solo come eventi da classificare in una categoria scientifica con tutti i risvolti e le concatenazioni annesse. Gli interessi e gli aspetti geologici, etologici e biologici erano sempre stati al centro del mio lavoro e della mia vita, ma, in questa particolare situazione, essi erano fuori luogo. Mi venne a tal proposito una riflessione di Carl Gustav Jung che lessi molti anni addietro e che ora comprendevo al meglio: “Anche le piante mi interessavano, ma non scientificamente. Ero attratto da esse per un motivo che mi sfuggiva, e col sentimento che non dovessero essere estirpate e seccate: erano esseri viventi che avevano significato solo finché crescevano e fiorivano, un significato nascosto, segreto, uno dei pensieri di Dio. Dovevano essere considerate con reverenziale timore e contemplate con filosofica meraviglia. Ciò che poteva dire la biologia era interessante, ma non era l’essenziale” .
Trascorsi una settimana in quieta esistenza con brevi passeggiate, qualche pescata nel fiume e una serie di riflessioni che però non portarono a nulla di nuovo. Il vento bussava alla porta, il fiume procedeva tranquillo e le piante, nella loro maestosità, mi trasmettevano un senso di compagnia e di conforto, come se la loro presenza si insinuasse saldamente nel mio stato d’animo.
Il caldo di quei giorni era piacevole, ma sapevo che era effimero e nel volgere di poche ore poteva mutarsi in un improvviso baluginare di freddo, un freddo non solo dell’aria, ma anche dello spirito. Non nel senso letterale, ma puramente metaforico perché ognora mi chiedevo se il mio veleggiare nel mare della natura mi avrebbe mai portato da qualche parte o, meglio, se mi avesse donato un numero essenziale di ascolti al fine che io comprendessi tutti i miei ed i “nostri” errori umani.
Cambia la vita, sorge un nuovo giorno, trasuda il sentimento e il mutarsi del profondo essere trascolora come le foglie in autunno. Ed intanto i giorni stavano trascorrendo ed in effetti la stagione autunnale era ormai alle porte.
Stavo seduto sulla riva del fiume ed osservavo con analisi “microscopica” le rocce che in lontananza sovrastavano lo scenario di quel luogo. Erano rocce compatte che si facevano largo tra il fitto della vegetazione che pareva voler inglobare ogni elemento dentro il suo verde mantello. Alcuni grossi macigni di pietra mi dettero l’impressione che stessero come seduti ad osservare, proprio come stavo facendo io in quel momento, e subito la mia mente si pose in uno stato di “ascolto” per percepire da essi qualcosa che in apparenza si celava alla sensitività. Non so perché, ma mi sovvenne l’idea, o meglio la riflessione, che tutta la nostra vita osservava il mondo circostante sempre da un inamovibile punto di vista, senza mai cangiare il modo di guardare. Forse la stessa cosa vista da altra angolazione o addirittura alla rovescia ci avrebbe potuto consentire di approdare a nuove e forse entusiasmanti scoperte, ma solo se la nostra predisposizione interiore si fosse posta in modo critico e analista. Altrimenti tutto si sarebbe risolto in un vuoto simulacro dove ciò che appariva diverso era il solo frutto di un pensiero momentaneo che poco dopo sarebbe stato abbandonato per riporre in perfetto ordine il nostro cardine visivo e fintamente speculare.
di Rovituso Rosaria